Processo per Strupro - 1978

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«Un processo per stupro», girato nel ’78, trasmesso dalla Rai in una tarda serata dell’aprile ‘79 e accolto da un successo così impattante (tre milioni di telespettatori) da guadagnarsi a furor di popolo una nuova messa in onda in prima serata con una audience addirittura triplicata. Quanto sarebbe bastato a qualunque programma per venire riproposto chissà quante volte in tivù se non fosse stato azzoppato da una sentenza. La quale accolse la pretesa di qualche avvocato che, finalmente a disagio per i toni, le battute da bordello, le insinuazioni usate mettendo alla sbarra la ragazza anziché i suoi stupratori, condannati in primo grado (per delitto contro la moralità pubblica, non contro la persona!) a pene risibili con la condizionale e a un risarcimento miserrimo (mezzo milione di lire a testa: 1.789 euro attuali), chiese il diritto all’oblio. Niente più nomi, niente più facce, niente più indignazione...

Risultato: da quel momento quel documento adottato come una preziosa testimonianza perfino dal MoMA di New York e girato dalle registe Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopulo, Paola De Martiis, Annabella Miscuglio Loredana Rotondo , è sparito da tutti i palinsesti vita natural durante. Come fosse una versione più spinta di Ultimo tango. O uno «snuff movie» dove le vittime sono uccise davvero. Peccato. Perché quelle parole usate da quei legali, oggi visibili solo in spezzoni su YouTube, hanno ancora, nella loro strafottenza machista, molto da dire.

Esempi: «Avete cominciato a scimmiottare l’uomo. Voi portavate la veste, perché avete i pantaloni? Avete cominciato col dire “abbiamo parità di diritto, perché io alle nove di sera debbo stare a casa, mentre mio marito il mio fidanzato mio cugino mio fratello mio nonno mio bisnonno vanno in giro?” (...) Voi avete voluto uscire! Se questa ragazza si fosse stata a casa, presso il caminetto, non si sarebbe verificato niente». «La violenza c’è sempre stata (...). Non la subiamo noi uomini? Non la subiamo noi anche da parte delle nostre mogli? Oggi per andare fuori ho dovuto portare con me l’avvocato (...) e l’avvocato (...), testimoni che andavo a pranzo con loro, sennò non uscivo di casa. Non è una violenza questa?». «Le donne! Le abbiamo sempre considerate, cediamo loro il posto sul tram, non facciamo confidenze se qualcuna ci concede i suoi favori... Di più: non disprezziamo la prostituzione che in tempi lontani, o anche vicini, ci può aver visto partecipi di momenti di piacere...». «Signori miei, una violenza carnale con fellatio può esser interrotta con un morsetto. L’atto è incompatibile con l’ipotesi di violenza. Tutti e quattro avrebbero incautamente abbandonato nella bocca della loro vittima il membro... Lì il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi. È lei che prende, (...) sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei!». Una schifezza.

Dirà l’avvocato Tina Lagostena Bassi, formidabile nemica di quei metodi: «Le parole pronunciate dagli avvocati si commentano da sole. E spingono le vittime a non denunciare i propri carnefici per non subire esse stesse un processo e passare da accusatrici a accusate». C’è bisogno di rivederlo, quel documento storico. Non è possibile sulla tivù pubblica? Si scelga una sede di prestigio. Di cultura alta. Un museo. Una galleria. Ma va tirato fuori, per aiutare tutti a capire, dai sotterranei dov’è stato sepolto.

Gian Antonio Stella
su https://www.corriere.it/editoriali/21_aprile_23/processo-stuproche-non-h...

 

 

 

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