1942 - La rivolta delle donne di Monteleone di Puglia

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23/08/1942 - La Rivolta delle donne

 

A Monteleone di Puglia (Fg), il comune più alto della Regione Puglia (mt. 847 s.l.m.), punto di incrocio delle vie di collegamento tra Puglia e Campania, tra il Mar Tirreno e il Mar Adriatico, abbarbicato sul Sub Appennino Dauno Meridionale, il 23 agosto 1942 ci fu la prima rivolta popolare contro il regime fascista, sebbene pochissimi lo sappiano (persino fra gli storici). La rivolta delle donne di Monteleone è stato senza dubbio il primo segnale di malcontento in Italia delle masse, addirittura antecedente agli scioperi scoppiati nelle fabbriche del Nord nel marzo del 1943, in particolare a Torino.

La notizia relativa alla ribellione rosa di Monteleone fu data al mondo da Radio Londra (la voce della libertà), celebrandola come episodio rivelatore della latente avversione al fascismo e incitò gli italiani a seguirne l’esempio (il caso di Monteleone trova riscontro nella biografia di Farley Mowat, uno dei maggiori poeti canadesi).“La causa scatenante della ribellione fu, come riferiscono alcuni testimoni, la decisione del comandante della stazione dei carabinieri di sequestrare alcune pignatte di granoturco a delle donne che erano in fila davanti ad un forno del paese. Gli orci furono distrutti e calpestati dai militari. Fu la scintilla che accese la protesta: il capannello si ingrossò, si spostò dal podestà, proprietario della farmacia del paese gridando «Vogliamo il pane – vogliamo sfarinare».

L’arrivo dei carabinieri ed il fermo di alcuni cittadini aggravò la situazione. Successivamente i manifestanti si recarono sotto la caserma dei carabinieri che, per disperdere la folla, aprirono il fuoco, provocando una più dura reazione delle monteleonesse”.

L’economia di guerra aveva ridotto la razione giornaliera del pane e della farina a 150 grammi a testa (che costituivano la base dell’alimentazione della gente povera), il diniego di molitura dei cereali e la chiusura del mulino per evitare macinazioni clandestine da parte delle autorità fece divampare la rivolta.La sommossa non fu il frutto di azione combinata e preordinata ma il frutto della fame e della miseria, un dramma familiare che divenne un dramma corale.La massiccia sottrazione di uomini validi, inviati su diversi fronti di guerra, rendeva ancora più dura la realtà quotidiana delle famiglie rurali. Durante il secondo conflitto mondiale, c’era tanta miseria e mancava tutto. Si mangiava quello che si produceva nell’orto e nelle masserie: latte, polenta, patate, verdura, fagioli, minestra. Altre derrate come zucchero, olio, carne, pasta, si acquistavano solo con la tessera.

Il caffè non si trovava e per il sale si doveva andare ad un fontana per attingere l’acqua salata (nell’acqua di questa sorgente vi era una forte presenza di sodio).

I vestiti erano pochi, si ricavavano dalla roba vecchia perché non si trovava la stoffa; per i maglioni, le calze, le sciarpe, i guanti, ecc., si tenevano le pecore e si filava la lana.

Si faceva tutto in casa. Per i lavori in campagna ci si doveva arrangiare perché erano rimasti pochi uomini e in alcune case solo le donne, perciò si facevano degli scambi, le donne andavano a rastrellare il fieno per due o tre giorni in varie famiglie in modo che un uomo andasse a falciare l’erba per loro.

Un drappello di donne assalì i simboli di un’autorità, che si dimostrava sorda alle inderogabili esigenze umane: il Comune e la Caserma dei Carabinieri. La ribellione è un fatto spontaneo, nato dall’esasperazione di mamme preoccupate dalla salute dei propri figli. Furono distrutti, con il fuoco, registri, carte annonarie, stampati vari, corrispondenza, documenti, mobili sia del Municipio che della caserma dei Carabinieri …

L’azione dei rivoltosi, al grido di «Vogliamo il pane! Vogliamo sfarinare! Abbasso la guerra! Ridateci i nostri figli! Ridateci i nostri mariti» (non aveva il carattere della “ruberia”, fra l’altro non fu tentata neppure l’apertura della cassaforte della caserma) mirò unicamente alla distruzione dei simboli e dei mezzi correnti usati dalle autorità fasciste. Urla che furono soffocate e dimenticate.

“La rivolta popolare contro il regime fascista fu soffocata con novantadue arresti, con il rastrellamento delle case e delle campagne e con la minaccia, per fortuna rientrata, di una deportazione di massa.Tra i fermati c’era perfino un ragazzo disabile, nonché alcuni infermi ed una donna con una bambina piccola (quest’ultima morì dopo poco tempo nel carcere di Lucera per “sopravvenuto malessere”, come si legge negli atti giudiziari). Seguì un processo che incredibilmente terminò con un proscioglimento solo nel 1950”. “Il Prefetto Dolfin (che in seguito aderì alla Repubblica di Salò) e un gran numero di carabinieri… sottoposero il paese ad una gigantesca razzia, casa per casa, contrada per contrada, furono fermati e interrogati centinaia di monteleonesi. Le donne, i ragazzi (fra cui molti minorenni) e gli uomini arrestati furono caricati sui camion e finirono nelle carceri di Lucera, Bovino, San Severo e della Capitanata. Il 3 settembre 1943, malgrado Mussolini fosse già stato destituito e arrestato nel luglio precedente, il sostituto procuratore generale del Re rinviò a giudizio novantuno imputati e chiese l’arresto di altri quindici cittadini. Il magistrato, che pareva non essersi accorto della fine del fascismo e degli sviluppi della guerra, considerò la protesta contro le restrizioni alimentari «indice della volontà di sopraffare ad ogni costo i poteri della pubblica autorità e di sostituire alla legalità la licenza e l’arbitrio»”. Secondo l’accusa formulata, dal sostituto procuratore del Re, dopo un nutrito lancio di pietre le manifestanti non esitarono ad appiccare il fuoco alla caserma e al municipio, a devastare gli uffici dell’ammasso del grano e a interrompere le comunicazioni telegrafiche e telefoniche. Molti arrestati rimasero in carcere per quattordici mesi. Furono liberati solo tra il 27 e 28 ottobre 1943, grazie alle avanguardie alleate: il destino volle che proprio i soldati canadesi, capitanati da Farley Mowat (poeta canadese) prima di scontrarsi con le retroguardie tedesche attestatesi sulle alture daune, aprissero le celle di Lucera. Non solo. Furono due detenute canadesi, in galera come prigioniere di guerra con le monteleonesse, a chiedere ai compatrioti di liberarle.

Tutto finito? Neanche per idea. Il calvario dei sessantaquattro imputati «superstiti» proseguì nel dopoguerra con il rinvio a giudizio davanti alla Corte d’assise di Lucera e l'accusa di «devastazione anche mediante incendio e saccheggio».

Il 9 maggio del 1950 i giudici della Corte di Appello di Bari dichiararono che non si sarebbe dovuto «procedere per i reati contestati perché estinti per l’amnistia del 1948».

“Nel corso del dibattimento si sottolineò che la rivolta di Monteleone, sia pure per cinque – sei ore, tolse ogni potere alle autorità fasciste – disse nella sua requisitoria l’avvocato Quintino Basso, difensore con Vittorio Cavalli (a titolo gratuito) degli imputati; se lo stesso fatto si fosse verificato in più comuni d’Italia, il fascismo non sarebbe caduto un anno dopo, ma sin da allora”.

La rivolta costò la vita a due donne e a un uomo (il militare in licenza fu arrestato senza aver commesso nulla), spedito al fronte dove trovò la morte.Questa storia, finora affidata alla tradizione orale, ha da poco ricevuto “sistemazione storica” grazie alle ricerche e agli studi curati dall’Amministrazione Comunale.La ribellione rosa è una pagina oscura della storia cittadina e italiana che l’Amministrazione Comunale di Monteleone di Puglia (Fg) ha voluto riportare alla luce.

La rivolta rosa, le scene e gli avvenimenti dolorosi di quel giorno glorioso e dimenticato sono preziosamente riemerse nell’opera fortemente voluta dal Prof. Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea (Ipsaic), autore del recentissimo volume Donne contro la guerra - La rivolta di Monteleone di Puglia (23 agosto 1942), edito da Edizioni del Sud.

Quella giornata di orgoglio monteleonese è stata ricordata in una celebrazione il giorno 8 novembre 2004 “Donne contro la guerra” ed ha visto la presentazione del libro di V. A. Leuzzi, senza l’appoggio e il sostegno di alcun partito politico o sindacato. Il libro dedicato a questo episodio è stato un omaggio forte e struggente alla memoria delle donne monteleonesi che con fierezza e coraggio seppero ribellarsi ai soprusi fascisti e che seppure per un breve intervallo spodestarono l’autorità fascista, di un omaggio a quanti, coltivando nell’intimo delle proprie coscienze un sogno di libertà, uguaglianza e democrazia hanno pagato con la vita e con il dolore, l’opposizione alla furia cieca, violenta e devastante del nazi – fascismo. L’Amministrazione Comunale ha celebrato quel giorno perché quella sommossa non cada mai nell’ oblio, per non dimenticare le più ripugnanti violazioni della libertà umana, per onorare le vittime, per incontrare i superstiti, per incontrare i parenti degli internati e per meditare sulle loro sofferenze.

Il 23 agosto 1942 rappresenta grazie alle donne coraggio per Monteleone un passaggio storico politico importante e indelebile lungo la strada della libertà, quel giorno rappresenta la ribellione alle vicende nefaste e tragiche della seconda guerra mondiale. La ribellione alle tragedie, pensiamo a quelle consumate nei gulag, nelle foibe e nei campi di sterminio di Auschwitz, Mauthausen, Bergen – Belse deve essere vissuto come un percorso necessario da farsi lungo la strada maestra della solidarietà, della giustizia, della libertà e della rinascita della nuova Italia repubblicana.

Quel giorno del ‘42 rappresenta la rinascita morale del nostro paese.

Dimenticare quel giorno vuol dire dimenticare il dovere di vivere liberi.

L’amministrazione comunale ha voluto onorare il coraggio e la forza morale di quelle donne. In quei mesi le nostre donne scoprirono che la Patria era soprattutto un insieme di valori, di libertà che dovevano non solo riconquistare, ma porre a fondamento per una giusta ricostituzione.

L’Amministrazione Comunale sta pensando di realizzare con documenti già richiesti agli archivi di Radio Londra un secondo libro.Alla manifestazione oltre al Sindaco Giovanni Campese in qualità di padrone di casa ha partecipato anche il Ministro del Lavoro e delle Risorse Umane del Canada Joe Volpe (il ministro è figlio di emigranti e figlio dell’emigrazione: suo nonno approdò oltre oceano 106 anni fa), la Professoressa Franca Pinto Minerva preside della facoltà di Lettere dell’Università di Foggia, il Professor Adalgiso Amendola Preside della Facoltà di Scienze Politiche di Salerno, i Professori Luigi Rossi e Alfonso Tortora sempre dell’Università di Salerno e il senatore della Repubblica Carmelo Morra. Il giornalista TG PUGLIA RAI Costantino Foschini ha presentato un documentario speciale dedicato all’evento. Per il paese è stato un evento di grande risonanza regionale ma anche un tuffo al cuore. Tante le sofferenze, tante le lacrime versate per le vere e proprie crudeltà legate alla vicenda (un militare in licenza fu arrestato senza aver commesso nulla, dal carcere venne inviato al fronte e lì morì).

“Eppure, nonostante questo esplicito riconoscimento, nel dopoguerra la memoria dell’evento, che colpì così sensibilmente questa piccola ma fiera comunità dell’Appennino dauno, è stata in gran parte rimossa, forse anche per il timore provocato nelle vittime dalla lunga carcerazione e da un processo interminabile. Ai patiti danni morali si aggiunse una profonda crisi economica: le aziende agricole e manifatturiere non erano in grado di soddisfare le esigenze dei conduttori (reddito, scarsa produttività, ecc. ecc.) e pertanto cresceva la miseria e proporzionalmente l’emigrazione verso il Canada e gli USA. Oggi circa ventimila monteleonesi, considerando le ultime tre generazioni, vivono a Toronto, nell'Ontario. La storia e la cultura caratterizzano il nostro vivere. 

http://www.comune.monteleonedipuglia.fg.it/zf/index.php/servizi-aggiuntivi/index/index/idservizio/20008/idtesto/11


 

Monteleone, la battaglia del grano

Libri. 1942, la lotta di alcune donne contro l’arroganza del fascismo in un piccolo paese pugliese diventa un processo che si trascina fino al 9 maggio 1950. La racconta in un volume Vito Antonio Leuzzi

di Pasquale Coccia

La mattina del 23 agosto del 1942 alcune donne di Monteleone di Puglia, un paesino di montagna posto sul confine tra la provincia di Foggia e l’Irpinia, erano in fila davanti al forno del paese per macinare poche pignatte di granoturco. Quell’intenzione si poneva al di fuori delle norme previste dall’annonaria del regime mussoliniano, regolate da tessere alimentari, che imponevano alle popolazioni un consumo razionato di grano, poiché l’accumulo veniva spedito in Germania in cambio di carbone. A quelle donne sole e poverissime, perché i mariti e i figli erano sui fronti di guerra, il comandante dei carabinieri sequestrò i pochi chicchi di granturco che avevano. Innanzi a quell’atto di arroganza le donne di Monteleone si recarono dal commissario prefettizio, facendo presente che non avevano altro da mangiare, che in tutta risposta disse: «mangiate le pietre». La tensione salì d’improvviso, la discussione animata si trasformò in collera, costringendo il commissario prefettizio e i carabinieri a rifugiarsi e barricarsi nel municipio, dove accorsero circa quattrocento donne di Monteleone a dare manforte alla protesta.

Dal balcone del municipio furono sparati alcuni colpi di arma da fuoco per allontanare le dimostranti, ma l’improvvida azione sortì effetti opposti e la collera popolare salì ulteriormente, visto che alla protesta si unirono anche gli anziani. Ripetuti colpi di pistola furono allora sparati dalle finestre del municipio sui dimostranti e a terra caddero ferite una decina di donne e una bambina di 10 anni. Dopo i primi attimi di disorientamento le monteleonesi passarono alle vie di fatto, un cumulo di paglia venne messo davanti al portone e gli fu dato fuoco e di lì a poco le donne di Monteleone erano all’interno del municipio al grido di «vogliamo il pane vogliamo sfarinare». Furono devastati gli uffici e tagliati i fili del telegrafo.

Nei giorni successivi la forza pubblica diretta dal prefetto di Foggia Dolfin effettuò un vero e proprio rastrellamento casa per casa a Monteleone di Puglia, centinaia di persone subirono interrogatori, furono arrestate 96 persone, tra le quali un ragazzo disabile, tradotte nelle carceri di Lucera, San Severo, Torremaggiore, Bovino e altre città della Capitanata, dove due donne, Brienza Carmela e Provvidenza Maria Assunta si ammalarono rispettivamente di tubercolosi e malaria e morirono nel mese di ottobre di quell’anno. Una donna venne tradotta in carcere con una bambina di pochi mesi, che morì «per sopravvenuto malessere» come recita il verbale di decesso, mentre un’altra donna detenuta partorì in condizioni precarie nella cella del carcere. Un ordine di cattura venne spiccato nei confronti di quindici monteleonesi. La Procura il 3 settembre del 1943 rinviò a giudizio 96 persone, compresi i minori di 18 anni, la loro detenzione durò 14 mesi, fino a quando gli inglesi, che avevano liberato la zona, non decretarono la loro scarcerazione.

Risultarono incriminati per aver rubato un paio di scarpe Morra Rosaria e Paolo Morsillo, mentre Visconti Teresa, ritenuta capo della rivolta, fu rinviata a giudizio «per aver schiaffeggiato il carabiniere Altavilla nel momento in cui Volpe Pasqualina aveva tentato di disarmare il brigadiere Piccioni» un altro capo d’accusa riguardò un minore che si era impossessato di un timbro. Per molte donne le conseguenze della carcerazione ebbero riflessi pesanti sui loro nuclei famigliari, già privi di uomini mandati in guerra, molti bambini restarono soli, le terre incolte. La vicenda delle coraggiose donne di Monteleone di Puglia assunse significati grotteschi, oltre che dolorosi, perché il 25 giugno del 1946, a Liberazione avvenuta, 64 dei 96 detenuti, furono rinviati a giudizio dalla Corte d’Appello di Bari per «saccheggio e devastazione» i restanti imputati per reati minori come il furto delle scarpe. Il processo si protrasse fino al 9 maggio del 1950, quando la Corte d’Assise di Lucera dichiarò di «non doversi procedere per i reati ad essi contestati perché estinti per amnistia». A salvare le donne di Monteleone fu, paradossalmente, l’amnistia decretata da Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia nell’immediato dopoguerra, oltre che segretario del Pci, voluta per pacificare l’Italia e usufruita dai fascisti, che si erano macchiati di reati politici durante il Ventennio.

Quelle donne, poverissime, umiliate nel profondo dell’animo da un processo grottesco, prima mussoliniano e poi repubblicano, negli anni ’50 emigrarono con i loro nuclei famigliari verso il nord America, in Canada e in particolare a Toronto, dove ancora oggi c’è una nutrita comunità, oltre che in Belgio e nel nord Italia. La vicenda delle combattive donne di questo paese dell’Appennino dauno, completamente rimossa per il dolore profondo provocato dalla lunga carcerazione e dall’interminabile processo, è tornata alla ribalta grazie al libro Donne contro la guerra. La rivolta di Monteleone di Puglia, (euro 10, Edizioni dal Sud) scritto da Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea.

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