Rosetta

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L’archivio di Rosetta
o del riprendersi la Storia
 
di Ada Donno
“La storia delle donne si costruisce sulla memoria di ciascuna.
Il racconto della vicenda personale femminile,
con la sua contrastata  e indomita aspirazione alla propria realizzazione,
 fa di essa argomento e materia di storia.”
 (Anna Maria Longo)
 
 
Sfoglio l’archivio di Rosetta con la curiosità cauta di chi sa di mettere mani nei pensieri  riposti di una persona cara che non c’è più. Quando me l’affidò Salvatore, il maggiore dei due figli di Rosetta, qualche anno dopo la sua morte, sentii in fondo al suo gesto una sorta di ritrosia: se lo tratteneva nelle mani come chi teme di perdere un bene caro. Qui ci sono i ricordi di mia madre, disse, lei si teneva conservate queste carte gelosamente, c’è la sua storia. Per questo ne avrò cura, lo rassicurai.
Forse, però, chiamare archivio un fascicolo di carte un po’ sparigliate e sgualcite  è esagerato. In realtà è una cartelletta verdina, di quelle che si usavano negli uffici, prima dell’era digitale, per fascicolare documenti da raccogliere a loro volta in faldoni. Per definizione, un archivio è una raccolta più o meno ordinata di documenti, scritture, carte o altro materiale, custoditi in funzione del loro valore di attestazione e di tutela di un interesse. Che può essere di qualsiasi natura, compresa quella personale e affettiva. Ma, se questa ingenua raccolta è stata conservata con una cura che testimonia un interesse da tutelare, se possiede le caratteristiche di naturalità, originalità e  spontaneità di formazione, che costituiscono l’essenza del vincolo archivistico, allora questo che ho tra le mani è  un archivio a tutti gli effetti, mi dico.
E mentre mi rigiro tali arzigogoli inutili nella mente, sollecitati dall’occasione che mi offrono i versi di Elio Coriano, m’immagino che Rosetta mi stia fissando con quella sua espressione obliqua, quella sorta di smorfia, insieme interrogativa e diffidente, che aveva stampata in faccia quando, nelle riunioni dell’Udi, faticava a seguire i discorsi di noi “femministe laureate”.
Sulla cartella c’è scritto con grafia un po’ incerta: Ricordi. Dentro,  un po’ alla rinfusa, alcune decine di fogli a righe, di quelli chiamati “protocollo”, ingialliti e macchiati dall’uso e dal tempo. Alcuni sono manoscritti. Ad una scrittura larga, infantile, con qualche sgrammaticatura, ne segue via via una più adulta e corretta. Sono i discorsi che Rosetta si preparava per i congressi sindacali o del partito, o per altre occasioni. Cari compagni… cominciano. Sicuramente la scrittura è dei figli di Rosetta, sotto sua dettatura, perché lei sapeva scrivere a malapena. La sua scrittura,  faticosa e sgrammaticata, è riconoscibile invece nelle annotazioni a margine o su altri foglietti sparsi.
“Cari compagni, nel passato sono stata operaia tabacchina, abito in un quartiere della periferia leccese,  mi sono sposata vent’anni fa e ho due figli, tutti e due studenti. La nostra è una famiglia unita…” –  si presenta così Rosetta, in uno dei suoi impacciati discorsi.
Altri fogli sono dattiloscritti e composti in uno sforzo di elaborazione che denota l’apporto di qualcuno a cui Rosetta ha chiesto aiuto. Si riferiscono a periodi diversi, anche se nessuno reca la data e solo dai riferimenti a certi eventi noti si può collocarli nel tempo: un congresso del sindacato, una campagna elettorale, il referendum per il divorzio, quello sull’aborto.
In uno di questi, Rosetta elenca “problemi denunce e proposte per il Rione Castromediano per i quali bisogna lottare”: l’allacciamento della fogna nera e l’acqua nelle case che i due terzi della popolazione di Castromediano non ha, l’asilo nido “che non c’è e sono 25 anni che lottiamo per averlo, e poi una scuola materna vera,  perché in quella che c’è i bambini stanno appiccicati in una sola camera, e le scuole elementari e medie che stanno provvisoriamente in abitazioni private e non hanno la palestra”.
In un altro si denunciano le condizioni del lavoro a domicilio delle magliaie, che “è retribuito due lire mentre i loro lavori poi li troviamo esposti nei negozi a prezzi altissimi con etichette straniere…”. Un repertorio variegato di rivendicazioni, le piccole grandi battaglie politiche di Rosetta.
Riunite in una busta ci sono alcune fotografie: Rosetta che legge impettita il suo discorso dalla tribuna di un congresso, o ad una festa dell’Unità; o impugna fieramente una bandiera durante una manifestazione; o sta compiaciuta davanti ad una torta enorme a lei dedicata dal sindacato per i cinquant’anni di fedeltà. La fedeltà di Rosetta… E’ la motivazione che ricorre sui diplomi rilasciati a scadenza dal partito: “alla compagna Generosa Bonatesta, iscritta dal 1944, a testimonianza della sua fedeltà”. I suoi titoli di studio. Le piaceva ripetere che il sindacato e il partito erano stati la sua scuola.
Sfogliando queste carte, una riflessione preme: la storia, anche la “piccola storia” che è così chiamata per distinguerla da quella con la maiuscola prodotta dalle accademie, in relazione alla costruzione di fogne ed acquedotti in un quartiere, all’edificazione di scuole e palestre in un piccolo comune, o altre simili opere meritorie, seppur modeste, registra volentieri nomi di sindaci o altre autorità competenti che le hanno realizzate. E va bene. Ma chi racconterà che quelle opere meritorie - prima di diventare deliberazioni meritorie di una meritoria autorità competente – stavano nella testa e nel grande cuore di una donna semplice e priva d’istruzione, che abitava un quartiere periferico di una città periferica? C’è qualche cosa che non va – di capovolto - in questo modo di scrivere la storia. Una sorta di espropriazione che sospinge i soggetti ai margini, nell’insignificanza e nell’oblio.
Allo stesso modo, un’indagine storica sulla produzione agricola e manifatturiera salentina nel secolo scorso può documentare le ragioni economiche, sociali, politiche e anche di sfruttamento che hanno caratterizzato l’oppressione delle classi subalterne nel Meridione; può illustrare quale fosse  l’utilizzazione della forza lavoro femminile, in quali termini fosse impiegata, a quali fini destinata e quale ne fosse la portata in rapporto allo sviluppo capitalistico e alle sue distorsioni.  
Ma tra le povere carte come quelle conservate da Rosetta puoi trovare chiare anche tutte le connessioni e le dipendenze di ordine familiare, civile, culturale e morale. E puoi trovare anche storicizzate le ragioni per cui lo stare al mondo è differente, oggi come ieri, per gli uomini e per le donne.
E’ per questo, per uscire dall’insignificanza storica, che le donne hanno imparato a raccontarsi, e soprattutto a farlo cercando le parole per dire le cose che a loro stanno più a cuore, per le quali le parole disponibili degli uomini, siano pure accademici, spesso risultano inservibili.
 
 
“Sono stata operaia tabacchina…”
 
In un tentativo di autobiografia, raccolto in poche pagine pubblicate più di recente, Rosetta raccontava della sua infanzia poverissima a Calimera, della madre che aveva fatto tredici gravidanze, del padre capraio che “certi giorni tornava a casa che non aveva venduto neanche un quinto di latte”; della sua infanzia senza giochi, perché doveva badare ai fratelli più piccoli e per questo non l’avevano neppure mandata a scuola; delle bambole di pezza che si faceva di nascosto e di quella volta che si era prese le botte perché aveva trovato in un cassetto una matassina di cotone e l’aveva usata per farci i capelli; della madre che infine era morta d’aborto e lei era stata mandata a servizio, perché “con quello che c’era  in casa era difficile sfamarsi tutti”.
Ricordava la sua adolescenza senza dolcezze e senza rabbia, ma con una intima determinazione. Considerava una mezza fortuna l’essere stata a servizio qualche tempo presso la famiglia di un ammiraglio, che un po’ stava a Lecce e un po’ a Venezia e, dato che la portavano con loro, aveva avuto la possibilità di conoscere un po’ di mondo che non fossero le quattro case del paese e d’imparare a parlare l’italiano. Ma poi era capitata in una famiglia dove la trattavano da schiava e allora aveva preso la decisione della “fuga” col suo fidanzato contadino Pippi, che l’aveva portata a casa dei suoi a Cavallino. Non avevano neppure fatto in tempo a sposarsi, che lui era stato richiamato alle armi e spedito sul fronte russo, e lei era rimasta incinta e senza soldi. I suoceri l’avevano accolta senza storie come una figlia, e di questo lei gliene portò sempre grande riconoscenza, specialmente al suocero che “la difendeva sempre”, anche se non era buona per i lavori di campagna e non distingueva le erbe commestibili dalle erbacce. Poiché si era abituata a mantenersi col suo lavoro, si sentiva a disagio in quella situazione, anche dopo il ritorno del fidanzato, il matrimonio regolare e la nascita del primo figlio Salvatore: il primo maggio, come un segno del destino. Il secondo figlio nacque alcuni anni più tardi, e lo chiamarono Palmiro, come il segretario del partito.  
Per un breve periodo aveva provato a piantare e raccogliere il tabacco. Lavoro pesante e primitivo, quando ancora bisognava “spidocchiare” le piante ad una ad una dai vermi parassiti e staccare le foglie con le dita che facevano male e s’indurivano di un nero colloso che non andava via neanche a spellarsi. E aveva infilato le foglie nei serti con la cusceddra, per metterle a seccare nei tiraletti, e aveva cantato i canti delle tabacchine, per alleggerire la cupezza della fatica.
Ma il suo desiderio era di andare a lavorare nella fabbrica di tabacco. Anche lì il lavoro era duro, certo, e non era sempre assicurato. Per i quattro mesi invernali si lavorava otto ore al giorno, dalla mattina alle sette alle quattro del pomeriggio, con una pausa a mezzogiorno per mangiare qualche cosa in fretta. Le operaie venivano assunte a stagione, senza la garanzia di essere riassunte per la stagione successiva. Il lavoro si svolgeva in locali malsani, o umidi o polverosi a seconda del momento della lavorazione, e pregni delle esalazioni che uccidevano lentamente.
Tuttavia, diventando operaia tabacchina le sembrava di essere salita di un gradino, di appartenere ad una categoria sociale più definita, perfino più rispettata. 
“Nel ‘42 entrai in fabbrica (a 18 anni); nel ‘44 mi fecero rappresentante nella commissione interna della fabbrica; nel ‘46 ero capolega…”: Rosetta scandisce così sui foglietti verdi del suo archivio la progressione del suo percorso di operaia tabacchina.
C’erano donne di tutte le età a lavorare con lei, dai quattordici ai cinquant’anni. Donne bruciate da una dura sopravvivenza tra fatica e gravidanze. Ma la maggior parte erano molto giovani come lei. Il lavoro era estenuante, tutto il giorno a cernere e spianare tabacco, sedute su quello sgabello duro, che dopo qualche ora ti si rattrappivano le gambe e non ti sentivi più la schiena, o a imballarlo.
Le “maestre” fiduciarie del padrone erano incaricate di distribuire il lavoro e di controllare che tutto si svolgesse secondo le consegne. Decidevano i ruoli: chi doveva fare l’imballatrice, chi la cernitrice o la spianatrice. La paga era diversa per le diverse funzioni.  Assegnavano la quantità di tabacco che ciascuna doveva lavorare nella giornata, e se qualcuna era più lenta e non ce la faceva, veniva sospesa per punizione. Sorvegliavano che le operaie non parlassero fra loro: perché perdevano tempo e diminuiva la produzione, dicevano. Ma anche perché – ma questo non lo dicevano -  le donne parlando si raccontavano e si ascoltavano e questo era meglio evitarlo. Anche il canto delle tabacchine veniva soffocato. Piuttosto era meglio recitare il rosario tutte assieme.
Il Salento era diventata da qualche decennio una delle aree più altamente specializzate nella produzione e la prima lavorazione delle qualità di tabacco levantino, che Rosetta e le sue compagne avevano imparato a distinguere e a chiamare coi loro nomi impronunciabili, che a loro suonavano come “santujaca”, “peristizza” e “zagovina”:  le più chiare dalle più scure, le più larghe dalle più piccole, le più ruvide dalle più lisce. Le tabacchine erano manodopera  indispensabile: prima di tutto perché la lavorazione delle foglie richiedeva le mani abili, leggere e veloci delle donne, meglio se in giovanissima età. Spesso erano quelle stesse mani che negli altri mesi dell’anno tessevano i propri corredi al telaio o ricamavano quelli commissionati dalle signore dei paesi.
E poi perché erano manodopera docile, che si poteva pagare la metà degli uomini senza dovere spiegare perché, disposta a piegarsi ad ogni angheria pur di tenersi quel posto.
Molte delle compagne di lavoro di Rosetta provenivano dalle stesse famiglie di coloni o di braccianti che producevano il tabacco nelle campagne attorno agli opifici. Con  la loro fatica stagionale, precaria e frammentata, d’estate nelle campagne di raccolta e d’inverno negli opifici, le lavoratrici del tabacco integravano il reddito familiare.
Tale concezione integrativa tornava utile a giustificazione della bassa retribuzione femminile. Per secoli era stata lo strumento di assoggettamento sociale, politico  e culturale, nonché familiare, delle donne. Secondo un criterio indiscusso, infatti, alle donne veniva corrisposto per legge solo il compenso dello sforzo richiesto dal lavoro in fabbrica o in campagna. Il corrispettivo economico  delle cure domestiche, invece, attività propria della donna per definizione e destino, veniva integrato nel salario dell’uomo capofamiglia, al quale soltanto spettava il mantenimento della donna e dei figli.
E caso mai non fosse bastata questa giustificazione, c’era pronta già nei secoli l’altra più rozza  e sbrigativa, comunemente accettata, dell’inferiorità della forza fisica femminile, del più basso livello d’istruzione e specializzazione e rendimento: in una parola, della naturale, ineliminabile inferiorità della donna.
Nonostante tutto ciò, erano in tante ad aspirare a quel lavoro, che i padroni, almeno fino ai primi anni del secondo dopoguerra, poterono selezionare con comodo la manodopera femminile disponibile.
Dopo qualche anno alcune finivano in sanatorio. Tutte sapevano del rischio di prendere la tubercolosi. Tubercolosi polmonare, difficilmente curabile, favorita dalla denutrizione e dalle precarie condizioni igieniche. Avrebbero dovuto almeno mettere le mascherine, ma nessuna lo faceva. C’erano i controlli sanitari previsti per legge, ma siccome qualcuna che risultava malata non veniva più chiamata a lavorare, tante preferivano nascondere la malattia.
Rosetta sentiva mormorare  che in trent’anni di tabacchicoltura migliaia di tabacchine avevano preso la tubercolosi e molte erano morte. E presto capì che doveva scegliere se affidarsi anche lei a san Luigi  Gonzaga, protettore dei contagiati, come facevano le sue compagne di lavoro, o  ribellarsi e lottare per cambiare le cose.
 
 
 “Certo furono le sofferenze che ci fecero unire nella lotta comune”
 
Era stato in casa dei suoceri che Rosetta aveva sentito parlare per la prima volta di sindacato, di diritti dei lavoratori, di partito. Sentiva borbottare che i concessionari avevano fatto milioni a palate d’accordo con Achille Starace e con gli altri gerarchi fascisti. Sentiva nominare i pescicani che speculavano sulla guerra. Ma ci capiva ancora poco di quei discorsi, anche se le suonavano giusti, perché lei un po’ ribelle lo era stata sempre. E quando, nell’estate del 43, alla radio dissero che era caduto Mussolini e vide suo suocero inginocchiarsi e baciare terra dicendo: “grazie a Dio, è finita”, lo guardò stupefatta e pensò che doveva essere successo qualche cosa di buono. Anche se non era ancora finita per niente, e avrebbero patito altri anni tremendi di fame e di paura.
Sentiva raccontare di scioperi spontanei delle tabacchine, che  però non avevano portato a niente perché non erano organizzate nei sindacati e le proteste venivano  duramente represse nel sangue. A Tricase nel ’35  c’erano stati cinque morti, tre donne e due uomini, ammazzati dai fascisti e dalla forza pubblica. E anche più tardi, nel ’44 a Lecce, quando le tabacchine manifestarono per i sussidi di disoccupazione e contro il sistema del caporalato, la polizia sparò e tre di loro rimasero uccise.
Il partito ed il sindacato l’aiutarono a tradurre il disagio in coscienza della sua condizione di servaggio e in volontà di lotta. Dapprima per sé, poi anche per le altre. “Certo furono le sofferenze che ci fecero unire nella lotta comune”, annota Rosetta sui foglietti verdi del suo archivio.
Aveva già capito da sé che le sofferenze non erano tutte dovute al destino, ma  partecipando alle riunioni  apprese cosa fossero le Concessioni speciali che il Monopolio statale rilasciava ai privati per la produzione e la lavorazione del tabacco. Capì che non per caso negli anni del fascismo c’era stata una grande espansione della produzione di tabacco, che si erano moltiplicate le concessioni speciali e ed erano sorti decine e decine di opifici privati. Sentiva nominare “i meccanismi di accumulazione e di rendita che intervengono nell’organizzazione agraria di tipo feudale basata sul latifondo” e non erano parole facili da capire, ma le fu ben chiaro come mai i concessionari il più delle volte fossero gli stessi grandi proprietari terrieri, che avevano ricevuto contributi statali per la costruzione degli opifici e di fatto esercitavano il pieno controllo su tutta la fase della produzione e della prima lavorazione del tabacco. Davano da coltivare le loro terre a colonia o a mezzadria alle condizioni imposte, ricavandone il massimo di rendita grazie a tutti i trucchi che conoscevano. E mentre i coloni ed i piccoli proprietari dovevano vedersela con gli imprevisti della sorte, loro andavano sempre sul sicuro,  I salari bassi delle tabacchine, poi, consentivano larghi margini di profitto sulla  lavorazione negli opifici. E questo era stato possibile fino allora grazie alla loro scarsa sindacalizzazione.
 
“Attivista comunista”
 
Rosetta fu una delle prime donne iscritte al sindacato. Non si risparmiava e non temeva di esporsi durante gli scioperi e nelle dimostrazioni sindacali della sua categoria. Vi partecipava intrepida, in prima fila, incoraggiata anche dall’esempio di compagne il cui nome sentiva pronunciare con rispetto dentro il sindacato e dentro il partito: Cristina Conchiglia, le sorelle Anna e Teresa Rocci, Dolores Abbiati. E poi c’era Adele Bei, sempre pronta ad ascoltare e a dare consigli in quella maniera gentile e perfino umile che aveva, nonostante fosse dirigente nazionale del suo sindacato. 
Le spiegavano che era un loro diritto, e non una concessione del padrone, chiedere mense aziendali e sale per l’allattamento dei figli piccoli; quanto fosse importante ottenere commissioni paritetiche per il controllo dell’avviamento al lavoro, per evitare pratiche discriminatorie che colpivano le lavoratrici iscritte al sindacato. C’erano già stati scontri violenti tra le forze dell’ordine e i lavoratori che protestavano contro l’arbitrario ingaggio padronale e  per assicurare ai lavoratori e alle lavoratici a tempo determinato quel minimo di giornate lavorative all’anno necessarie  per usufruire dei benefici previdenziali.
Ma non bastava il confronto fabbrica per fabbrica, con il singolo datore di lavoro, occorreva  allargare il fronte, ottenere contratti collettivi nazionali che garantissero a tutte adeguamenti  salariali, sussidi di disoccupazione e copertura previdenziale per i mesi di non lavoro, assegni familiari, condizioni di lavoro più umane e tutele che migliorassero la qualità del lavoro e della loro vita.
Il primo contratto nazionale delle tabacchine fu firmato il 1° novembre 1947, data memorabile, anche se questo non significava che i padroni lo rispettassero.
Perciò il 12 novembre fu proclamato lo sciopero generale che proseguì per  dieci giorni. I sindacati chiamarono a scioperare l’intera categoria dei lavoratori agricoli a sostegno della vertenza delle tabacchine. L’adesione allo sciopero fu la più ampia vista fino ad allora in tutta la provincia. Cinquantamila lavoratori agricoli e tabacchine parteciparono a cortei, manifestazioni, blocchi stradali, comizi organizzati dalla Federterra davanti ai tabacchifici, per rivendicare miglioramenti salariali, tutela del lavoro, controllo democratico del collocamento, che era gestito dagli uffici comunali del lavoro e quel tipo di gestione consentiva ad agrari e concessionari di violare la legge sull’imponibile di manodopera e di esercitare le ritorsioni più feroci contro le tabacchine sindacalizzate.
Le cronache del tempo descrivono in tutta la provincia cortei che avanzano cantando l’inno dei lavoratori, cariche di polizia, arresti in massa, brutale repressione in obbedienza alle direttive del ministro Scelba che aveva intimato di “intervenire con energia denunciando autori e istigatori”. Ma ogni episodio repressivo non faceva che sollecitare manifestazioni di solidarietà, anche delle altre categorie. Il 20 novembre a Campi Salentina due lavoratori furono uccisi e molti altri restarono feriti nel corso degli scontri.
Rosetta in fabbrica cercava di convincere le sue compagne di lavoro a non subire passivamente le angherie delle “maestre” che le insultavano: puttane, svergognate, lavorate! E su qualcuna alzavano pure le mani.
Ma su di lei no, mai: perché sapevano che era iscritta al sindacato, che era intrepida e partecipava alle manifestazioni. E poi era una che sapeva parlare in italiano e aveva anche una lingua che sapeva essere tagliente quando occorreva. Era brava anche ad inventare rime – una capacità che le veniva dalla memoria delle filastrocche griche che sentiva da bambina a Calimera – e sulla condizione delle tabacchine compose una poesia che recitò al congresso provinciale dei lavoratori del tabacco, e diceva così:
 
La maestra già incomincia
da matrigna a funzionar
che di tutta la provincia
è un modello di bontà,
e si avventa su costoro
con la lingua di serpente:
“Su pettegole al lavoro,
che vi pigli un accidente,
svergognate e puttagnole
disoneste “ e così via
e le povere figliole
quante cose han da sentir.
Poi c’è ancor la caposquadra
Che qualcosa ha pur da dir,
ché per farsi benvolere
anche lei si fa sentir.
Incomincia a brontolare
“Ma volete far qualcosa?”
Non fa altro che gridare
Sino a rendersi noiosa.
E così ragazze mie,
quando poveri si nasce
sono avversi con le vie
anche i panni con le fasce
e dobbiam sacrificare
la più bella gioventù
e subire per mangiare
la più grande schiavitù.
 
Ebbe un grande successo e la sua poesia uscì pure sul giornale.
Qualche giorno dopo arrivò in fabbrica il dottore Reale, il padrone, e volle conoscere la tabacchina che aveva recitato la poesia: per complimentarsi con lei, disse. Volle sentirla da lei e lei la declamò al microfono.
“Ma è vero quello che lei dice della fabbrica?”, le chiese il dottore.
 E lei pronta: “Venga lei stesso a vedere. Ma deve arrivare all’improvviso, senza tutta la corte dietro…”.  La corte delle maestre ruffiane, dei capisquadra e degli ispettori, che avevano il compito di nascondere le magagne a beneficio del padrone.
Quel giorno Rosetta si prese l’applauso entusiasta delle sue compagne, ma la maestra, che si era fatta di tutti i colori, se la legò al dito.
A grande maggioranza era stata votata nella Commissione Interna (ricordava precisamente i numeri: su 320 voti, 290 andarono a lei e 30 alla maestra), ma tanto fecero che le impedirono di formarla.  Lei era ormai individuata come “attivista comunista” e presa di mira. In fabbrica tentarono di farla passare per ladra nascondendole delle foglie di tabacco nelle tasche del cappotto. L’aria si faceva sempre più irrespirabile per lei nella fabbrica Reale, e alla fine si licenziò. Passò a lavorare nella fabbrica di tabacco che chiamavano “dei combattenti” perché era stata messa su con i risarcimenti della guerra. Le voci maligne su di lei la precedevano e fin dal primo giorno fu interpellata dalla maestra, che la guardava con sospetto. Rosetta le rispose con fermezza che non chiedeva altro che di essere rispettata. E che fossero anche rispettate le sue compagne di lavoro, e non offese o addirittura malmenate.
Fu un susseguirsi di agitazioni e scioperi sempre più combattivi ed efficaci fino al 1950. Le lotte delle tabacchine andavano di pari passo con quelle dei lavoratori agricoli, che spesso scioperavano per solidarietà o per sostenere le proprie rivendicazioni, come miglioramenti salariali per le categorie bracciantili o una più equa ripartizione dei rapporti di colonia e mezzadria. Erano tempi in cui ci si buttava nelle lotte col cuore senza risparmiarsi.
Lei non si tirava mai indietro. Anche quando le venivano affidati compiti per i quali non si sentiva all’altezza. Come quando fu nominata rappresentante in quella che chiamavano la Commissione Mola per l’imponibilità di mano d’opera. Lei ci capiva poco e niente, ma imparò.
 
Fece anche la staffetta del sindacato durante le occupazioni delle terre incolte dell’Arneo.  Organizzava le collette e le raccolte di viveri a sostegno degli occupanti. Ogni giorno partiva di buon’ora in bicicletta e andava all’Arneo. Sapeva che nel rione dove abitava c’era chi mormorava e sparlava alle sue spalle per questa sua spavalderia. Specialmente quella volta che all’Arneo ci restò tre giorni di seguito, perché i carabinieri sequestrarono tutte le biciclette compresa la sua. Quella volta un po’ di rimorso lo sentì, soprattutto perché aveva lasciato il figlio piccolo e il marito a casa soli. Senonché il terzo giorno se lo vide arrivare con una grossa pignatta di piselli e una quantità di pane per lei e per gli altri. Ne fu contenta. Fu sempre riconoscente verso quell’uomo di poche parole e di sentimenti onesti che la sosteneva fidandosi di lei.
Nel gennaio 1950 ci fu una forte ripresa degli scioperi “a singhiozzo” in ogni paese della provincia, repressi con arresti e denunce in massa. Nel suo archivio  Rosetta conserva, come un cimelio, copia di un verbale di udienza del tribunale di Lecce che riporta la sentenza nella causa penale contro venti imputati, fra i quali c’è anche lei,  Bonatesta Generosa di Pantaleo, nata il 4.10.1924  e residente a Cavallino. Imputata con gli altri 19 di “avere con violenza e minaccia costretto i dirigenti e le operaie delle manifatture di tabacchi di S. Cesario a sospendere il lavoro”. Con l’aggravante, per alcuni di essi, di “avere promosso ed organizzato la cooperazione del reato”.
Il rapporto del maresciallo dei carabinieri di San Cesario dell’11 febbraio 1950, su cui si basa l’accusa, riflette suo malgrado (e fatto salvo l’involontario effetto comico) il clima d’intimidazione che pesava in quegli anni sul mondo del lavoro. I venti erano imputati  di “essere giunti espressamente in paese da Lecce, per preparare ed organizzare lo sciopero, altrove già in atto e di avere a tale scopo commesso varie violenze, costringendo molte operaie a non recarsi al lavoro e altre che vi si erano recate ad astenersene”. Fieramente compreso nel suo ruolo di difensore dell’ordine costituito, minacciato da pericolosi “attivisti comunisti”, il maresciallo riferisce di allarmanti proporzioni della folla, che i carabinieri non riuscivano ad arginare e  che in massa si dirigeva verso le varie fabbriche di tabacco, allo scopo di costringere le operaie a sospendere il lavoro”; di “folla tumultuante che andava vieppiù ingrossandosi lungo la strada”, nella quale egli aveva individuato gli imputati come “promotori ed organizzatori delle varie azioni delittuose”. Nel corso dell’udienza, in realtà, un solo testimone, un proprietario di fabbrica, conferma che gli imputati “presso la sua fabbrica con urla e contegno minaccioso l’avevano costretto a disporre la sospensione del lavoro”. Gli altri dichiarano, in parte ritrattando quanto dichiarato in istruttoria, che le operaie venivano fatte uscire dalla fabbrica “per misura prudenziale” senza costrizione. Insomma non c’è prova di alcuna azione delittuosa. Forse – chiosa a questo proposito il giudice malignamente – questi ultimi hanno ritrattato “come facilmente avviene in casi consimili, per timore di rappresaglie”. Ma resta il fatto che non c’è prova di violenza, allo stato degli atti. Restano solo le grida e lo sciopero, che però non possono ritenersi violenza,  “anche se – insinua il giudice - con le grida si ottenne l’effetto. Non bisogna dimenticare che una folla scioperante di per sé incute timorecome pure non bisogna dimenticare che sarebbe assurdo pensare a una folla che non gridi; elemento, anche questo, fortemente suggestivo, specie sui singoli, cui le grida sono dirette”.
Sofisticherie incomprensibili, per Rosetta. Ma la conclusione era l’assoluzione, sia pure per insufficienza di prove, e tanto bastava.
 
“Dal ’48 al ’54 furono anni tremendi”
 
Con la sua scrittura un po’ sgangherata Rosetta annota:  “Dal ’48 al ’54 furono anni tremendi, con i carabinieri che venivano in casa di notte e ti mettevano tutto sottosopra”. Anni di un conflitto di classe durissimo. A cui si partecipava col cuore, senza risparmiarsi. Alle lotte delle tabacchine s’intrecciavano spesso quelle di altre categorie di proletariato agricolo e urbano. E le lotte di tutte le categorie erano a loro volta intrecciate con le campagne elettorali, quella del 18 aprile con le Madonne pellegrine che piangevano per le colpe dei comunisti, quella del ’53 contro la legge truffa, e poi le altre. E le campagne elettorali erano intrecciate con quelle dei partigiani della pace per l’interdizione dell’arma atomica e a sostegno di un accordo fra le cinque  grandi potenze per mettere fine al nucleare.
“Nel ’49 e anche negli anni seguenti abbiamo raccolto migliaia di firme” annota Rosetta.
In seguito i soloni del partito avrebbero detto che in quegli anni c’era stata una semplificazione eccessiva, che si erano confusi i ruoli del partito e del sindacato, mentre si sarebbe dovuto distinguere, e altre cose simili. Ma Rosetta pensava che allora la connessione era così lampante che non potevano fare diversamente: i padroni delle terre e delle fabbriche che ieri erano fascisti, adesso erano i democristiani che avevano  cacciato i comunisti dal governo, dopo la parentesi dell’unità antifascista che avevano ingoiato di malavoglia. Ed erano gli stessi che a mezza bocca soffiavano che bisognava usare la bomba atomica per farla finita con la guerra di Corea, e magari anche con l’Unione Sovietica, perché lì mangiavano i bambini. E perciò era lampante l’intreccio fra le lotte per uscire dalla miseria secolare e quelle per la pace nel mondo, contro l’impiego della bomba atomica, o per ottenere la grazia per i Rosenberg che erano stati condannati alla sedia elettrica negli Stati Uniti come spie del nemico. Lei era riconoscente al partito che le aveva insegnato a vedere le misteriose connessioni fra fatti apparentemente così lontani fra loro.
Ricordò sempre quegli anni come un periodo ricco e fruttuoso della sua vita. Aveva  imparato tante cose anche nelle riunioni dell’Udi, dove aveva potuto ascoltare parole nuove e le aveva riconosciute. Le pareva che illuminassero la sua storia personale di una dignità diversa.
Capiva perché il lavoro, che lei aveva voluto con ostinazione, per quanto sfruttato, costituisse una spinta a riflettere sulla profonda ingiustizia della condizione femminile, a dispetto della fatica e delle mortificazioni. Come avrebbe potuto, se avesse continuato a fare la serva, fosse in casa d’altri o nella famiglia? Doveva essere anche un desiderio di emancipazione a spingere le donne a sottomettersi al lavoro più duro. E doveva esserci una ragione se gli uomini si lamentavano che le centinaia di operaie, che uscivano al mattino da casa e  al tramonto facevano ritorno dagli opifici, andavano assumendo atteggiamenti più indipendenti, più autonomi, fino a costituire motivo di scandalo, perché si rompeva un ordine secolare che voleva le donne sottomesse all’autorità del padre, del marito, dei fratelli.
Ma soprattutto partecipando alle lotte, pensava Rosetta, si determinava una capacità di pensare  per sé  diritti nuovi, impensati e impensabili fino allora.  
Rosetta continuò a presentarsi come “operaia tabacchina” anche dopo che gli opifici erano chiusi ormai da un pezzo nel Salento, perché sentiva così di appartenere ad un corpo di lavoratrici  solidale che, contrassegnando col suo protagonismo la storia sociale del Salento negli anni fra tra la fine della guerra e la fine degli anni ’50, si era conquistata una sorta di nobiltà storica e perfino simbolica nel movimento operaio e anche in quello delle donne.
Negli anni seguenti le cose s’erano fatte più difficili perché il lavoro diminuiva ogni anno insieme alla produzione di tabacco, gli opifici cominciarono a chiudere per  tante ragioni, per la concorrenza dei tabacchi di tipo americano, che non si produceva nel Salento; per l’epidemia di peronospora; per la meccanizzazione del lavoro che restringeva la richiesta di manodopera alla sola fase della lavorazione delle foglie. Quando nel ’57 sopraggiunse l’accordo europeo sulla liberalizzazione del mercato del tabacco greggio, tutti dissero che era questione di pochi anni altri, per il tabacco salentino era finita.  Per migliaia di lavoratori non restava che l’emigrazione.
Anche Rosetta cominciò a rimuginare l’idea di emigrare, soprattutto dopo che un muro della loro casa crollò per le infiltrazioni di umido  e loro non avevano i soldi per ricostruirlo, perché lei non trovava più lavoro e quello che suo marito guadagnava bastava appena per tirare avanti. Ma lui non ne voleva sapere. Allora lei prese la grande decisione: sarebbe partita da sola. Sarebbe rimasta giusto il tempo di mettere insieme un po’ di soldi, diceva per convincere Pippi, che più di tutto temeva le malignità della gente. Ma di questo Rosetta non si preoccupava, e più ci pensava, più si diceva: perché no? Nel partito e nel sindacato non dicevano sempre che le donne hanno uguali diritti, che devono emanciparsi? E partì per la Germania. Trovò posto alla Grundig, una grande azienda elettrotecnica dove lavoravano quasi mille italiani. Fu un’altra grande scuola di lotta operaia per lei. Come era abituata a fare, partecipava impavida alle assemblee, sebbene non capisse un’acca di tedesco. Anzi fu proprio lei a chiedere la traduzione per le maestranze immigrate. Lavorò per un certo tempo anche in un ristorante come cuoca e ci stava tanto bene che sarebbe rimasta, se suo marito si fosse convinto a raggiungerla coi figli.
Ma non ci fu niente da fare. Quando le arrivò la voce che le solite malelingue sparlavano che lei avevano abbandonato per sempre casa e figli, e che lui per la vergogna evitava di farsi vedere in piazza, dovette cedere e se ne tornò definitivamente. La Germania rimase una parentesi di due anni, a cui ripensava di tanto in tanto con qualche rimpianto.
Tornò alle sue riunioni e alle sue lotte. Quelle per la tutela della lavoratrice madre, quelle per la parità salariale, per gli asili nido. Poi quella per il divorzio. Imparò perfino a fare i comizi. Faceva propaganda per il no all’abrogazione della legge, fra gli abitanti del Rione Castromediano dove vivevano, e anche a Lecce.  Perché – spiegava - chi aveva la sfortuna di un’esperienza matrimoniale fallita non poteva rifarsi una regolare famiglia e doveva vivere il resto della vita in un’atmosfera avvelenata?
Poi venne la campagna per l’aborto. Trovò il coraggio di raccontare in pubblico la sua esperienza di donna che da giovanissima aveva affrontato vita sessuale e maternità conoscendo solo le poche cose che sentiva a mezza voce dalle donne più grandi. L’ignoranza teneva le donne sotto quello scacco tremendo, ripeteva. E raccontò degli aborti provocati con l’infuso di prezzemolo, di donne morte tra atroci dolori ed emorragie terribili perché erano ricorse a pratiche abortive clandestine.
E tante altre cose. Ma queste fanno parte di una storia venuta dopo.
Rosetta avrebbe voluto raccontarla per iscritto da sé la sua storia, se avesse conosciuto parole sufficienti. E’ importante poter ricomporre in una narrazione le esperienze della vita, dando ad esse un inizio e una fine: consente di dare ad esse il senso che una vuole. Si possono sostituire i luoghi del ricordo penoso, della sofferenza, della rinuncia e dell’abbrutimento, si possono riempire i vuoti del rimosso e il taciuto della vita, con una narrazione compiuta che va oltre la rappresentazione miserabilistica di una condizione umana femminile violentata e maltrattata. Lei aveva sempre cercato, anche nelle sacche di miseria più disperata, i barlumi di rifiuto della rassegnazione e con uno sguardo che sapeva vedere oltre era capace di scovare i sentimenti puri che restituiscono dignità. Erano state queste qualità a farle osare di desiderare d’esser parte della Storia delle donne liberate.
 
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