Annamaria Rivera

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Anna Maria Rivera 
antropologa, saggista, scrittrice, docente femminista

 Negli anni '70 nel Collettivo Donne in Lotta di Bari e nel Coordinamento Regionale Femminista Pugliese
qui un'intervista su
Emancipazione e Liberazione


Sessismo, razzismo, specismo: note introduttive a una dialettica complessa
fonte: http://www.istitutoeuroarabo.it/
 


di Annamaria Rivera /

1. Il “sesso” come la “razza”

Le società contemporanee sono caratterizzate da una pluralità di rapporti sociali di dominio, basati su discriminazioni e ineguaglianze principalmente in base al sesso, alla “razza” e alla classe sociale, che di solito agiscono simultaneamente. Io cercherò qui di tratteggiare sinteticamente analogie, nessi e intrecci, soprattutto relativi alle dimensioni ideologica, discorsiva e simbolica, per quel che riguarda i due sistemi di dominio che chiamiamo sessismo e razzismo. Metterò dunque tra parentesi, per mere ragioni di economia del discorso, il riferimento alla condizione sociale, la quale nondimeno è fattore basilare di discriminazione e ineguaglianza: a tal riguardo basta considerare come oggi l’immigrazione – oggetto di una pletora di discorsi e pratiche razziste – sia usata «quale modalità di gestione dei rapporti di classe» (Collectif Manouchian, 2010).

L’ipotesi da cui parto è che sessismo e razzismo, pur non essendo identificabili o sovrapponibili, siano interconnessi storicamente e congiunti fattualmente da numerosi legami, anzitutto, ma non solo, da un rapporto di analogia: nell’ideologia e nel discorso sessisti, il “sesso” ha un posto e svolge una funzione analoghi a quelli che il razzismo attribuisce alla nozione di “razza”.[1] Che si dica esplicitamente “razza” o che se ne adoperino sostituti funzionali di tipo eufemistico – “etnia”, “cultura”, “differenza” ecc. –, in ogni caso il meccanismo consiste nel selezionare abusivamente alcuni tratti fenotipici e/o culturali, per definirli e istituirli come razziali – o comunque tipici di un gruppo umano – e per adoperarli al pari di marchi che identificherebbero una certa tipologia di altri.

Questi contrassegni di solito sono intesi come manifestazioni esteriori o esteriorizzate dell’essenza o della sostanza di un’entità – la “razza”, l’ “etnia” oppure la cultura e la religione –, alla quale gli individui a tal punto apparterrebbero da esserne determinati nei caratteri morali e comportamentali, anzi da essere non più individui o persone, bensì tipi, rappresentanti di quella categoria. Qualcosa di analogo accade per i generi, in particolare per il femminile: una sola peculiarità biologica – l’apparato genitale e la potenzialità procreativa – è prescelta come segno distintivo e significante generale. Così che io non ho più questo o quel sesso, che costituisce una delle tante mie peculiarità, ma sono questo o quel sesso, poiché è anzitutto esso che determinerebbe la mia identità, la mia personalità, i miei caratteri morali.

Come ha osservato l’antropologa Françoise Héritier (2004), non è scontato, non va da sé che la categorizzazione binaria maschile/femminile debba essere gerarchizzata, al di là della semplice differenza. Ciò significa che la gerarchia discende da ben altro che non dalle semplici differenze sessuate: soprattutto dai processi di appropriazione delle donne – del loro corpo e della loro mente – finalizzati in primo luogo a controllarne la funzione riproduttiva.

I due processi di categorizzazione e differenziazione – maschile/femminile; noi/gli altri – presentano numerose parentele morfologiche e condividono dispositivi ideologici e simbolici, strutture di pensiero e di discorso. Essi procedono secondo una logica, se non comune, almeno affine, che fa perno sui dispositivi della essenzializzazione, della naturalizzazione, della reificazione. Quest’ultimo concetto, è il frutto, ben attestato, di una tradizione di pensiero che risale a György Lukàcs (1991). Sulla sua scia, lo definisco come quella postura, disposizione e pratica sociale routinaria, che conduce a considerare e a trattare certi soggetti diversi dal noi non già in modo conforme alle loro qualità di esseri sensibili, ma come oggetti inerti o addirittura come cose o merci.

Per “essenzializzazione” intendo, in sintesi, la riduzione di un individuo all’essenza attribuita arbitrariamente al gruppo sociale, alla popolazione, alla minoranza, al genere cui appartiene o cui è ascritto abusivamente. L’essenzializzazione, a sua volta, conduce alla de-individualizzazione, quindi a una percezione totalizzante delle persone appartenenti a categorie alterizzate. Le donne, al pari e prima dei colonizzati, degli ebrei, degli stranieri, degli “immigrati”, sono state (e sono) vittime di dispositivi e pratiche che non solo tendono a negare loro ogni individualità, ma anche a percepirle e a rappresentarle come totalità indistinta: le une e gli altri «hanno solamente diritto all’annegamento nel collettivo anonimo» (Memmi, 1989), a essere dissolti «in una entità collettiva che sarebbe la sola ad esistere realmente» (Taguieff, 1997): il sesso come la “razza”, il gruppo etnico, la cultura d’appartenenza, la religione aliena… Il singolo individuo – quella donna, quello straniero, quell’ “estraneo” – quando c’è, non rappresenta altro che l’incarnazione dell’essenza attribuita all’intero genere o all’intero gruppo di appartenenza.

Quanto alla nozione di naturalizzazione – centrale per chiunque si occupi di sessismo e razzismo –, essa potrebbe essere definita come riduzione a natura di ciò che è eminentemente storico, sociale, culturale, quindi non solo di coloro che sono oggetti e/o vittime delle pratiche discorsive e sociali del sessismo e del razzismo, ma anche delle loro differenze – reali o immaginarie – e degli stessi processi che conducono a inferiorizzarli, screditarli, discriminarli. Insomma, il discorso e le pratiche sessiste, al pari di quelle razziste, spesso fanno appello alla natura per giustificare e riprodurre rapporti sociali di potere basati sull’appropriazione-dominazione del genere femminile. Come gli altri, le donne avrebbero una natura specifica che le predisporrebbe a essere dominate e discriminate; in quanto dominate, possono essere naturalizzate come sesso, così come gli altri sono naturalizzati in quanto razza o etnia. Alla base del sessismo, infatti, v’è un discorso simbolico che valorizza le differenze fra il genere femminile e quello maschile come naturali, definitive e irrecusabili, rimandando ad «una natura femminile morfologica, biologica, psicologica» (Héritier, 1979: p. 797). Per esprimerci con le parole di Pierre Bourdieu (1998: 29), il discorso sociale maschile tiene insieme due operazioni: «legittima una relazione di dominio iscrivendola in una natura biologica che a sua volta è una costruzione sociale naturalizzata» [2]. Invero, aggiunge Colette Guillaumin (1992: p. 61), l’idea secondo la quale le donne costituiscano un “gruppo naturale” è la forma di naturalizzazione del sociale più universalmente condivisa e meno messa in questione.

Se uno dei fondamenti della percezione, dell’ideologia e delle condotte razziste è la cancellazione dell’altro reale, sostituito dalla sua rappresentazione essenzializzata, quindi fantasmatica, questo vale ugualmente e ancora di più per il sessismo: le rappresentazioni del femminile oscillano fra l’affermazione di una radicale differenza di natura e la negazione di ogni specificità. La donna è così differente da appartenere all’ordine della natura, del caos, del mostruoso, come racconta un gran numero di miti, “primitivi” e moderni; oppure è così poco specifica da essere null’altro che la femmina dell’uomo o un uomo mancato, come spesso si è affermato nell’ambito del pensiero occidentale.

Malgrado queste precisazioni, “naturalizzazione” resta un termine ambivalente, quindi bisognoso di un’ulteriore specificazione: non si tratta di un processo che riconduce e/o riduce le altre e gli altri alla semplice realtà naturale – alla loro morfologia-biologia-fisiologia oppure allo statuto e alla condizione dell’animalità – ma di un’operazione culturale che proietta sugli umani l’ombra di una natura che è stata già svalutata e degradata idealmente, concettualmente e fattualmente. Questa operazione discende a sua volta, come dirò più avanti, principalmente dall’affermarsi nella cultura moderno-occidentale della dicotomia natura/cultura.

Conviene aggiungere, infine, che i due sistemi – sessismo e razzismo – sono accomunati anche dal fatto che le pratiche linguistiche, discorsive, simboliche e sociali danno per scontato che il referente, il normale, il generale, l’umano si incarnino nel noi: il noi maggioritario, il gruppo o la “razza” dominante, nel caso del razzismo; il noi maschile (ed eterosessuale), ugualmente dominante, nel caso del sessismo. Perciò il noi – maschile e maggioritario – possiede anche il potere di definizione: è esso che si definisce universale e che definisce gli altri e l’altro genere come particolari; è esso che elabora e riproduce le rappresentazioni e le norme che sono alla base delle gerarchie fra i sessi e fra maggioranze e minoranze.


2. Sull’intreccio fra sessismo e razzismo: qualche esempio storico


Per abbozzare un brevissimo excursus diacronico, si può far cenno al fatto che, anche storicamente, la xenofobia, la ziganofobia, l’antisemitismo, il razzismo coloniale, il razzialismo “scientifico” si sono intrecciati con l’inferiorizzazione e la de-umanizzazione delle donne. L’antisemitismo, in particolare, ha sempre fatto ricorso ad un meccanismo vittimario straordinariamente simile a quello del capro espiatorio, sperimentato contro le donne anzitutto con la caccia alle streghe.

Sulla coincidenza, storica e attuale, fra la “comunità razzista” e la “comunità dei maschi” alcune pagine illuminanti sono state scritte da Etienne Balibar (1991: p. 42), il quale ha sottolineato come tutte le categorie dell’immaginario razzista siano “sessualmente sovra-determinate” e come la costruzione delle differenze dette razziali sia stata condotta sulla base di “universali antropologici” che metaforizzano la differenza sessuale. Basterebbe citare un topos dell’immaginario coloniale e razzista: l’attribuzione agli altri di una sensualità lasciva e di una potenza sessuale mostruosa, la produzione di miti, leggende e dicerie sulla depravazione dei “selvaggi”, sulla potenza sessuale dei “negri”, sulla disponibilità sessuale delle africane…

A proposito dell’ideologia e dell’immaginario coloniali del diciannovesimo secolo, Ali Rattansi (1994: 45-46) ha osservato opportunamente che essi articolano strettamente la sessualizzazione dei discorsi sulla “razza” con la razzializzazione dei discorsi intorno alla differenza sessuale. La stessa cosa si ritrova nei razzialismi “scientifici” della stessa epoca, che spesso rappresentano le “razze inferiori” come simili alle donne: le une sarebbero accomunate alle altre non solo da analogie fisiche, ma anche dal temperamento impulsivo ed emotivo, dall’incapacità a fare ragionamenti astratti, dalla propensione a imitare piuttosto che a creare…

Un tema razzista assai ricorrente, per esempio, è quello della femminilizzazione degli ebrei: a partire dal Medioevo, una credenza assai diffusa attribuiva ai maschi ebrei caratteristiche femminili, fra cui quella delle mestruazioni; alla fine dell’Ottocento teorie mediche e psichiatriche rielaborano questo topos assimilando gli ebrei alle donne per ciò che riguarda la propensione alla nevrastenia e all’isteria (Rossi-Doria 1999: pp. 459-460).

Nei biologismi ottocenteschi – in particolare nella letteratura d’ambiente positivista, anche “progressista” – se, come è vero, tutto viene rimandato alla natura, la natura femminile è nondimeno rappresentata come “più naturale” di quella maschile: la donna è portatrice di caratteristiche ataviche, è simile al bambino (a sua volta, un “piccolo primitivo”, secondo Cesare Lombroso), è prossima al mondo animale, è insomma rappresentata enfatizzando gli stereotipi abitualmente usati per definire i “selvaggi”, i “primitivi”, gli ebrei, gli “zingari”, i colonizzati. Per Lombroso, esponente di spicco di una “scienza” che ha contribuito in misura notevole a rafforzare l’idea di un’inferiorità femminile naturale [3], «la donna normale ha molti caratteri che l’avvicinano al selvaggio, al fanciullo e quindi al criminale»; ma, avendone altri opposti che neutralizzano i primi, non è che una «semicriminaloide innocua» alla quale manca perfino la «creatività», se così si può dire, e la pericolosa disposizione ad agire che connota il «criminale nato» (Lombroso-Ferrero 1893: p. 157). Si pensi all’eugenetica, realizzata su larga scala dal regime nazista, sperimentata ed attuata negli Stati Uniti da ben prima, cioè sin dalla fine dell’Ottocento, praticata almeno fino agli anni Settanta del Novecento in Paesi europei quali Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca: la sterilizzazione forzata di donne ritenute “tarate”, devianti “per natura” o mentalmente insane rappresenta il compimento estremo della sintesi fra l’ideologia della purificazione razziale, la de-umanizzazione delle donne, il dominio sulla loro capacità riproduttiva.

Infine, in anni più vicini a noi, l’intreccio fra sessismo e razzismo si è dispiegato in maniera visibile e tragica nel conflitto dell’ex Jugoslavia, con lo stupro delle donne della parte etnica o religiosa avversa: il pene usato come arma per colpire il nemico attraverso il corpo della donna mostra la continuità tra l’odio e la violenza “etnici” e la reificazione delle donne. Come ci invita a riflettere Françoise Héritier (1997), lo stupro finalizzato alla “pulizia etnica”, rivela fra l’altro l’idea che la pretesa identità etnica sia qualcosa di così essenziale e naturale da poter essere trasmessa attraverso il seme maschile.

Con questo excursus sommario ho inteso rimarcare come, ben oltre il rapporto di analogia, fra i due sistemi di dominio che definiamo sessismo e razzismo ve ne sia uno di concreta e attiva interconnessione (o di intersezione, per dirla alla maniera di alcune pensatrici femministe americane). I processi di razzializzazione e/o inferiorizzazione che hanno come oggetto i colonizzati, gli “estranei”, i migranti, le minoranze, le donne, gli omosessuali ecc. appartengono, infatti, a un sistema storico costituito da forme complementari, sebbene non necessariamente coincidenti, di dominio, discriminazione e/o esclusione.

Non necessariamente coincidenti, conviene rimarcare. Come già nel 1993 avvertiva Etienne Balibar, è necessario sì indagare e illuminare analogie e intrecci fra sessismo e razzismo, e mettere in evidenza il meccanismo di svalorizzazione che accomuna entrambi i sistemi, ma anche prestare attenzione alle diversità e alle peculiarità rispettive, scongiurando il rischio di sovrapporli o amalgamarli in modo abusivo o semplicistico.


3. Il “ciclo maledetto” inaugurato dallo specismo


Ritengo, tuttavia, che quel che ho scritto finora, in particolare sui processi di naturalizzazione che accomunano i due sistemi, sarebbe insufficiente a cogliere, di questi, il modello e la struttura primari se non facessi riferimento alla dicotomia natura/cultura, istituita o comunque valorizzata dalla modernità occidentale. Il pensiero occidentale moderno, pur contemplando forme di continuità nella sfera materiale – evolutiva, biologica, poi anche genetica… – ha per lo più separato culturalmente e moralmente non solo corpo e spirito, soma e psiche, ma anche gli umani dai non umani. Di conseguenza, esso ha sovente operato una netta dissociazione fra i soggetti umani e gli oggetti animali, reificando questi ultimi e negando non solo il fatto che essi abbiano un “mondo”, delle culture, una “storia”, ma perfino la loro qualità di soggetti di vita senziente, emotiva, cognitiva.

Tale denegazione e di conseguenza l’esclusione degli animali non umani dal nostro mondo morale viene avvalorata e giustificata mediante una serie di stereotipie. Come scrive Luisella Battaglia (2003: pp. 10-11), gli stessi stereotipi «che dovrebbero legittimare l’indifferenza verso la sofferenza degli animali o giustificare l’ordinaria spietatezza nei loro riguardi sono strettamente correlati ai modi del pensiero razzista e sessista, come testimonia la lunga storia della discriminazione. Si scarica l’aggressività sui soggetti più indifesi: (…) chi, più degli animali, eminentemente indifesi, si presta a diventare capro espiatorio?»

Dalla dicotomia natura/cultura, affermatasi con la modernità occidentale, è scaturita un’ontologia del tutto particolare, che a sua volta ha generato una cosmologia e un’etica tra le tante. Per coglierne appieno l’arbitrarietà, la peculiarità, la parzialità, quindi la non-universalità, basta considerare che questo modello dualistico, che peraltro appare tardivamente nel corso dello sviluppo della stessa cultura occidentale, è solo una delle tante espressioni possibili degli schemi che presiedono all’oggettivazione del mondo e degli altri, come scrive l’antropologo Philippe Descola (2005: p. 13). Perciò esso è privo di senso per la maggior parte delle tradizioni culturali non occidentali, delle quali molte, all’opposto, hanno fatto della continuità fra i viventi il paradigma costitutivo delle proprie ontologie e cosmologie (ibidem). Numerose «società dette “primitive” (…) mai hanno pensato che le frontiere dell’umanità si fermassero alle porte della specie umana, esse che non esitano a invitare al concerto della loro vita sociale le piante più modeste, i più insignificanti tra gli animali» (ivi: p. 15).

Il sistema di idee, credenze, pregiudizi, ma anche di dominio e sfruttamento, che oggi facciamo rientrare sotto il termine di specismo – utile a nominare sinteticamente l’ideologia della centralità e della superiorità della specie umana su tutte le altre, e le pratiche conseguenti – è probabilmente l’esito o almeno il corollario, come sostengono gli studiosi che se ne sono occupati, dell’azione storica di domesticazione, prima, poi anche di assoggettamento e sfruttamento degli animali non umani da parte degli umani. Alcuni antropologi, anzitutto Claude Lévi-Strauss, hanno ipotizzato che l’assoggettamento, la squalificazione, lo sfruttamento degli animali siano stati il modello primario che ha permesso il dominio, la reificazione e la gerarchizzazione di certe categorie di esseri umani.

Nel discorso in commemorazione di Rousseau, pronunciato nel lontano 1962, Lévi-Strauss (1978: pp. 69-79) sostiene che è attraverso la separazione radicale fra umanità e animalità che l’uomo moderno-occidentale inaugura quel “ciclo maledetto” che in seguito sarà la base per escludere dalla sfera dell’umanità un gruppo umano dopo l’altro e a costruire un umanesimo riservato a minoranze sempre più ristrette. Più tardi egli avrebbe ripreso lo stesso tema nella famosa conferenza presentata all’Unesco nel 1971 (“Race et culture”), ripubblicata in Le régard éloigné (1983), affermando che questa radicale separazione «ha consentito che fossero respinte, al di fuori di frontiere arbitrariamente tracciate, frazioni sempre più vicine di umanità» (1984: p. 46).

Più recentemente lo ha ribadito il sociologo della scienza Bruno Latour (1997): la partizione fra Noi, gli occidentali, e tutti gli altri, fra la Civiltà e le culture, è stata possibile, egli scrive, perché si è istituita una netta partizione fra gli umani e i non umani, e questa, a sua volta, ha permesso la creazione artificiale dello “scandalo degli altri”. Insomma, il percepire, considerare e trattare gli animali al pari di cose – di oggetti inerti, dominabili, sfruttabili, manipolabili, sterminabili – può essere considerato come il modello generale di tutti i processi di squalificazione, reificazione, mercificazione che investono il mondo degli umani e del sociale[4].

Si può quindi sostenere che vi siano analogie e continuità non solo tra sessismo e razzismo, ma anche fra questi due e lo specismo. Con ciò non intendo affermare che i tre sistemi di dominio – e con essi la progressiva gerarchizzazione dei rapporti sociali e il classismo conseguente – siano legati da un rapporto di causalità o genealogico semplice e univoco, che si sarebbe sviluppato secondo un movimento progressivo e unilineare: le cose sono ben più complesse, interconnesse e tortuose di quanto farebbe pensare qualsiasi congettura di tipo evoluzionista.

È indubbio, tuttavia, che le tre forme di dominio implichino l’idea di una natura inferiore oppure mostruosamente superiore da soggiogare. E tutte e tre, in fondo, hanno la stessa matrice: il desiderio di annullare l’altro-da-sé che non si sa riconoscere come parte del proprio sé (vedi Derrida, 2006 e Acampora, 2008). Le donne e gli altri possono essere de-umanizzati, animalizzati (si pensi alla pletora di metafore zoologiche di cui si servono i lessici del sessismo e del razzismo) e trattati conseguentemente anche perché gli animali sono stati bestializzati, vale a dire privati del diritto al riconoscimento, al rispetto e alla dignità. Se certi gruppi umani sono sterminabili è anche perché vaste categorie di animali sono state dichiarate sterminabili e/o sono state di fatto sterminate.

In un mirabile aforisma di Minima Moralia, Theodor W. Adorno (1979: p. 117) scrive che la possibilità del pogrom si decide «nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – “non è che un animale” – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il ‘non è che un animale’, a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale».

Note

1 Svolgimenti più ampi di questo e dei temi successivi sono contenuti in: Rivera, 2000; 2007a; 2007b; 2010.

2 Il corsivo è dell’autore.

3 Fiero oppositore dell’emancipazione femminile fu anche il suo contemporaneo, Paolo Mantegazza, fondatore dell’antropologia italiana e autore negli stessi anni di un’opera celebre, La fisiologia della donna (1891), che ebbe grande successo, e che non è azzardato né antistorico definire come antifemminista (vedi, in proposito, Rossi-Doria, 1999).

4 Uno svolgimento più ampio di questi temi è contenuto in: Rivera, 2000.

Riferimenti bibliografici

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